Come le tue scelte di acquisto influiscono sui miei cari in Bangladesh
di Kalpona Akter, fondatrice e direttrice del Bangladesh Centre for Workers Solidarity
Articolo originariamente apparso sul quotidiano The Sidney Morning Herald il 23 marzo 2017
Forse non lo sai, ma alcune donne del Bangladesh sono appese nel tuo armadio, piegate nei tuoi armadietti e partecipano alle tue riunioni di lavoro e happy hour del sabato sera. Forse non sapevi di averle invitate, ma l’hai fatto quando hai scelto di comprare quella maglietta o quei pantaloni.
Pochi consumatori sanno che, a proposito di vestiti, il Bangladesh è una superpotenza globale. Le linee di produzione tessili del Bangladesh – nelle quali per lo più donne e ragazze lavorano per lunghe ore con una retribuzione spaventosamente bassa – nel 2016 hanno esportato capi di abbigliamento per un valore di 36,4 miliardi di dollari. Il mio paese è il secondo esportatore di vestiti più grande al mondo, dopo la Cina. Gran parte degli abiti che il mondo indossa sono fatti in Bangladesh. Guarda il marchio del tuo vestito o di chi te l’ha venduto – Kmart, Target, Cotton On, Just Jeans, Big W, The Gap, Nike, H & M, Zara – la lista del “made in Bangladesh” è infinita.
Nell’economia globale, le decisioni che i consumatori prendono – sui vestiti che indossano e su quanto sono disposti a pagare per essi – hanno un impatto diretto sulla vita e sui mezzi di sostentamento di quasi tutti quelli che conosco.
Tre anni fa il mondo guardava con orrore l’edificio di nove piani del Rana Plaza a Dhaka (la capitale del Bangladesh), che ospitava le fabbriche che realizzano i vestiti per alcuni dei più grandi marchi del mondo, crollato poco dopo che i lavoratori hanno iniziato i loro turni del mattino, intrappolandone migliaia all’interno. Più di 1.100 lavoratori sono morti e altri migliaia sono rimasti feriti.
Ero lì, in prima linea a lottare con loro, lavorando con le famiglie dei lavoratori feriti o uccisi, per ottenere assistenza e risarcimento, supportandoli nel fare richieste al governo del Bangladesh, e impegnata con organizzazioni sindacali internazionali e sostenitori dei diritti umani, per chiedere ai marchi globali di abbigliamento di condividere la colpa di quanto accaduto, e assumersi la loro responsabilità.
La tragedia del Rana Plaza è sembrata un campanello d’allarme per il mondo e per i marchi di abbigliamento globali. Tuttavia, lo stesso allarme l’avevo già sentito molti anni prima. La prima volta ha suonato per me stessa da bambina, quando lavoravo in una fabbrica di abbigliamento: sono stata rinchiusa – assieme ai miei colleghi – dai manager dell’azienda all’interno dello stabilimento, quando un incendio era scoppiato su un altro piano dello stesso palazzo. Suonò di nuovo quando a 16 anni ho cercato di organizzare un sindacato. Invece, sono stata licenziata e inserita nella lista nera.
Dopo aver fondato nel 2001 il “Centro per i diritti dei lavoratori del Bangladesh”, ho iniziato a rispondere a quegli allarmi. Ogni giorno fornisco consigli ai lavoratori che sono stati minacciati, o licenziati, per aver difeso i loro colleghi di lavoro. Ma la cosa più preoccupante è il ripetersi di incendi o crolli negli stabilimenti, uccidendo dozzine, centinaia e infine, nel caso del Rana Plaza, più di mille lavoratori.

L’edifico Rana Plaza crollato nel 2013
A causa dell’immensa pressione provocata dalla tragedia del Rana Plaza, successivamente a essa sono stati firmati due patti internazionali: l’ “Accordo-Bangladesh sulla sicurezza degli incendi e degli edifici” e l’ “Alleanza per la sicurezza dei lavoratori del Bangladesh”.
L’ Accordo-Bangladesh è un accordo vincolante che richiede, ai marchi internazionali che lo hanno sottoscritto, di garantire che le fabbriche ove si realizzano i loro prodotti siano conformi alle raccomandazioni conseguenti a ispezioni realizzate col fine di migliorare prevenzione e sicurezza dagli incendi in fabbrica, e nelle strutture che le ospitano. Ma in piena contraddizione con ciò, la natura puramente volontaria dell’adesione all’“Alleanza per la sicurezza dei lavoratori del Bangladesh” comporta che i risultati delle ispezioni possono anche non essere applicati dai suoi membri, il che costituisce una grossa contraddizione e un grande problema irrisolto.
Nonostante la pressione internazionale, il governo del Bangladesh rifiuta regolarmente di riconoscere i sindacati. Le autorità chiudono un occhio sui proprietari delle fabbriche che minacciano, molestano e addirittura maltrattano fisicamente gli operai che cercano di unirsi per farsi sentire. I lavoratori hanno difficoltà a prendere le ferie annuali, i congedi di maternità o le assenze per malattia. E, soprattutto, il salario minimo di 88,40 dollari al mese [nel 2017] non è sufficiente per coprire le spese mensili di un lavoratore, per non parlare di un’intera famiglia.

Kalpona Akter
Spesso mi viene chiesto se la soluzione è di non comprare vestiti con scritto “Made in Bangladesh”. No, continuate a comprare prodotti realizzati in Bangladesh. I lavoratori – quasi l’80 per cento dei quali sono donne – hanno bisogno di lavoro. Ma usate la vostra voce e il potere dei consumatori per chiedere il rispetto dei nostri diritti.
Questa è una questione di vita o di morte per noi. In quella fatidica mattinata, gli operai del Rana Plaza hanno visto le crepe nei muri, e molti inizialmente si sono rifiutati di entrare nell’edificio. I supervisori hanno blandito e minacciato i lavoratori che recalcitravano, dicendo loro che se avessero rifiutato, sarebbero stati licenziati.
Nessuna delle fabbriche che operavano nel Rana Plaza aveva un sindacato in grado di difendere quei lavoratori. Di fronte alla dura scelta tra la perdita del posto di lavoro e l’indigenza, o il rischiare la vita, quei lavoratori hanno occupato la loro postazione sulle linee di montaggio, per l’ultima volta. Spetta a tutti noi fare in modo che non accada mai più.
Articolo originale: https://www.smh.com.au/opinion/how-your-bad-shopping-choices-affect-my-loved-ones-in-bangladesh-20170322-gv4aim.html